4^ Domenica di Quaresima – 30 Marzo

Letture: 1Samuele 16,1.4.6-7.10-13; Efesini 5,8-14; Giovanni 9,1-41


Noi, accecati da orgoglio e vanità


Siamo tutti d’accordo nel dire che Gesù ha avuto una missione particolare nei confronti degli emarginati e degli esclusi dalla società del suo tempo. Fare classifiche potrebbe sembrare antipatico, ma risulta utile per comprendere il disagio in cui molte persone si trovavano a vivere. Se, per dire, la lebbra era particolarmente ripugnante a isolava fisicamente dalla società dei sani, la cecità veniva considerata il malanno più grave, non soltanto per le ovvie conseguenze pratiche, ma anche per una implicazione religiosa tipicamente giudaica: il cieco non poteva leggere e quindi non aveva accesso allo studio della Torah. Sotto questo profilo la cecità pone l’individuo che ne soffre in una posizione di distanza estrema rispetto a Dio, perché non potendone conoscere il volere, non è in grado di mettere in pratica ciò che gli chiede. Se poi il cieco è tale dalla nascita, la situazione è davvero disperata, al punto che comprensibilmente i discepoli si domandano quale gravissima colpa possa essere stata a monte di questa tragedia (Gv 9,2). Solo con il prosieguo dell’episodio ci si rende conto che lo stato del cieco nato è condiviso da tutta l’umanità fino a quando non viene chiamata alla luce da Gesù. Del resto, già il salmista aveva cognizione del fatto che Dio ha il potere di ridare la vista: “il Signore ridona la vista ai ciechi” (Sal 146,8). Ciò è perfettamente comprensibile quando si considera che una delle definizioni di Dio più comuni nella Scrittura è che Egli è luce: “Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna” (1Gv 1,5). Ma il discorso qui si sposta rapidamente sul piano spirituale, dove la vista rappresenta la conoscenza, mentre la tenebra è metafora dell’ignoranza. “Cieco”, quindi, è colui che non conosce e, nello specifico, chi non conosce la volontà di Dio. La più dura requisitoria di Gesù nei confronti delle guide spirituali di Israele è caratterizzata dalla continua ripetizione dell’epiteto “cieco” per indicare i capi religiosi del suo tempo e ne troviamo esempi lampanti in Mt 23,16-26. Se la cecità costituisce un serio problema per chi deve provvedere solo a se stesso, la questione si complice enormemente quando si deve badare ad altri. “Sono ciechi e guide di ciechi”, dice Gesù a proposito dei farisei che si scandalizzano di lui, “E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso” (Mt 15,14). In una situazione analoga, i farisei domandano beffardamente a Gesù se devono reputarsi ciechi (Gv 9,40). La risposta di Gesù è tanto laconica quanto gelida: se fossero ciechi, potrebbero essere guariti; la loro presunzione, invece, li rende irrecuperabili. La nostra lingua distingue molto bene le due condizioni. Un conto è essere ciechi e un altro essere accecati. Dall’orgoglio, dalla vanità, dall’ignoranza, dalla presunzione. E il bello è che per guarire non servirebbe neppure un miracolo, basterebbe togliersi di dosso gli occhiali deformanti che ci siamo ostinati a voler portare…